16 June 2016

CHORA | territorialità spurie


CHORA | territorialità spurie

testo di Donato Faruolo


Il Parco Scultura La Palomba, al margine opposto della gravina su cui si affaccia Matera, fu realizzato su iniziativa dell’artista Antonio Paradiso in un’antica cava di tufo esausta. Negativo residuo di una settecentesca Matera che dopo lo scavo approda al costruito, è diventata oggi luogo di esposizione permanente di opere antropologiche, un antro in grado di mettere in risonanza l’arte oltre le strategie della musealizzazione.
Chora è tra le iniziative temporanee che ne tengono viva la presenza, e che più ambiscono a leggerne e affermarne la vocazione contemporanea. È un’esposizione collettiva in forma di convivio tra esponenti della comunità artistica lucana. In mostra, opere di Alessandra Bia, Dario Carmentano, Bruno Di Lecce, Donato Faruolo, Pino Lauria, Marcello Mantegazza, Massimo Lovisco, Claudia Olendrowicz e Vito Pace. In occasione dell’inaugurazione, avranno luogo eventi performativi condotti dagli stessi artisti: Immagine urbana, memoria, segno, di Alessandra Bia, con la partecipazione del poeta Bartolomeo Smaldone; Eutrapelìa, di Dario Carmentano; Linea di Confine, di Pino Lauria con la partecipazione dell’attrice Stefania Visconti; Thirteen tears in the ears, opera sound art di Massimo Lovisco, Gabriele Rufino e Stefano Spagnuolo. 
Il titolo dell’evento rimanda a categorie formulate da Platone e rielaborate tra gli altri da Jacques Derrida: al di fuori dei confini della polis, oltre il luogo della vita organizzata in cui la legge umana ambisce a coincidere con la legge della natura, si estende il luogo dell’indefinibile e del verosimile, un’area topografica e dell’intelletto in cui si dispiegano tanto l’inconcepibile quanto le infinite articolazioni del pensabile. La cava, un ambito che vibra fatalmente tra il vuoto e lo statuto di luogo senza mai giungere all’insignificanza, che si definisce anzi per privazione, diventa ricettacolo (una delle possibili traduzioni della parola chôra), ovvero sfera delle possibilità, luogo molteplice.
Butade, il vasaio di Sicione di cui parla Plinio il Vecchio, sceglie di collocare il primo mitologico ritratto della storia in un tempio, ossia nel luogo del divino: non concepisce altro luogo adeguato per custodire un’immagine escogitata quale reazione catartica alla minaccia incombente dell’invisibilità, e quindi intesa nel suo senso ontologicamente più elevato. Nell’era della traduzione di ogni conoscenza e coscienza nei codici del digitale, l’invisibilità, la scomparsa, la disapparizione sono moralmente riabilitate al rango di porte d’accesso alle facoltà dell’informe. Non più fatale minaccia di smarrimento della forma, del sembiante e dell’identità, ma ipotesi e ineludibile rischio di proiezione in infiniti tempi, spazi e dimensioni. 
La cava è un negativo, ma non un negativo determinante come lo sarebbe una vecchia pellicola fotografica, capace di proiettare fuori da sé solo l’immagine positiva del referente che l’ha impressa. È invece negativo di forme potenziali ed incognite, traslocate e traslitterate. In questa misura, la cava è il tempio eletto delle immagini presenti, delle immagini dell’era in cui delle grandi narrazioni si è dismesso perfino il lutto, in cui ogni autorevolezza è dissolta nella fluidità di attribuzione di senso di un motore di ricerca, e in cui anche l’identità (l’essere uguale a se stesso) approda alla performance, all’atto perpetuo del definirsi e dello smentirsi, in estrema aderenza ai moti di un’esistenza riluttante a ogni ordinamento.
Matera è città atavica e anautoriale in cui ogni segno è segno culturale e in cui gli antichi percorsi urbani sono la pietrificazione di uno schema insediativo e relazionale scomparso: ogni muro compete con la strada, ogni pavimento con il soffitto altrui, ogni vicinato con il vicinato accanto. A questa pregnanza di sensi negoziati si contrappone la contemporanea ricerca di un destino, di una vocazione, di un momento di elaborazione cui nessun processo progettato sembra saper rimediare.
Chora nasce come coordinamento di energie intellettuali, come spazio, dispositivo, argomento, pretesto e laboratorio di discussione, non con l’intenzione di suggerire direzioni e strategie ma con l’intenzione di ripartire dalla convivialità stessa, dalla messa in comunione di idee, in un frangente in cui ogni movimento generazionale è dissolto e ogni spazio pubblico di riflessione destabilito. Una spedizione esplorativa nell’area dell’ignoto – ma non dell’oscuro – dove non si è ancora provveduto a strutturazioni di senso, di pensiero e di parola e in cui tuttavia non si può rinunciare a inoltrarsi. Un confronto senza tabù sul senso contemporaneo di comunità, di vita urbana, di relazione, nonché di una territorialità spuria e insoddisfatta.
La serie di nuove opere di Dario Carmentano intorno al tema dell’Eutrapelìa (2016) solleva eloquenti quesiti sull’immagine culturale del tempo: da quando la cultura cristiana ha teso la vita tra una creazione e un giudizio divino, il futuro si espone a divenire merce di ricatto morale. L’opera Eterozigoti racconta di una moneta nelle funzioni di un dispositivo sociale: elaborata come tramite nelle relazioni tra gli uomini, ha finito essa stessa col diventare il programma di quelle relazioni, conformandole a un paradigma disumanizzato in cui alla reciprocità degli atti e del lavoro si corrisponde con un segno vuoto contenente valore convenzionale. Uno sgravio da quelle mutue compromissioni emotive che sono alla base della creazione di sentimenti comunitari. Due monete da 1 Euro sono affiancate: una appare quale esemplare di riferimento; l’altra è levigata a specchio sul fronte, perdendo l’enunciazione del proprio valore nominale. L’annullamento, la negazione, la rimozione del valore semantico del denaro ne rivela la nudità, provocando un effetto domino su ognuna delle costruzioni culturali superfetate sulla sua narrazione.
Una raffinata costruzione sintattica e paradossale modulata sulla linea che separa (e unisce) l’etica borghese allo più spietato senso di unheimlich.
Vito Pace porta a Matera alcuni pezzi tratti da Post Scriptum (2007), un’indagine negli ipertesti potenziali delle immagini. A partire dal dipinto Ragazzo delle elementari (1948) di Vincenzo Claps (storico pittore aviglianese) Vito compie percorsi  rabdomantici, talvolta esoterici o dadaisti, alla ricerca di frammenti di senso eventuale. Il ragazzo nel dipinto guarda il pittore con sguardo placidamente interrogativo, e questo è sufficiente ad avviare un interrogativo coercitivo intorno al senso del ritrarre, agli oscuri rapporti che si stabiliscono tra immaginari diversi attraverso la superficie della rappresentazione. Nel cimitero di Avigliano la tomba di Maria Mecca ha un buco al posto della fotografia (Lapidarium). In quell’assenza si apre una voragine verso un orizzonte che la presenza dell’immagine avrebbe ostruito. The Altar ritualizza in seconda battuta il rituale della produzione e conservazione di un immagine, e contemporaneamente il fortunoso insuccesso del processo, che potrebbe trasformare la cornice da perpetuo killer di immaginari infiniti in un produttore di visioni. I Frames ci mostrano il paesaggio potenziale schiuso dall’ipotesi della scomparsa del soggetto.
Steinschwamm (2016) di Claudia Olendrowicz è il risultato di una poetica composizione di sensi inanellati a partire dalla reputazione e dal ruolo che alcuni oggetti, forme e materiali assumono nella cultura degli uomini. Partendo dalla potente suggestione offerta dai blocchi di tufo superstiti all’interno della cava, Claudia immagina grosse spugne impregnate di sapone induritesi al punto da diventare resistenti come materiali da costruzione. La porosità della spugna, capace in natura di filtrare inquinanti, combinata con il sapone diventa strumento di igiene, quindi simbolo di civiltà, di progressione, di costruzione culturale. Ognuno dei quindici pezzi di spugna in mostra è vestito da un brandello di abbigliamento, a sancire la definitiva umanizzazione di un frammento di inanimato. Una curiosa metafora articolata con elisioni e allusioni su più livelli, in grado di attivare immaginari e narrazioni culturali promiscue a proposito di oggetti prima sterilmente utilitari.
Fan club (2016) di Massimo Lovisco nasce dall’originale visione dell’artista capace di ironici apparati per la rivelazione di strutture relazionali non censite. Qui il percorso artistico si ibrida con la passione per i segni e i rituali delle comunità musicali: da ogni concerto ci si porta a casa un feticcio, un distintivo al valore da boy-scout, ossia una piccola spilletta circolare di latta da poter apporre sui vestiti di ogni giorno per riconoscersi e per provocare piccoli scambi di opinioni monotonia della vita quotidiana tra un concerto e l’altro (le communities). In questo caso nessun piccolo divo dell’indie, nessun profeta dei sintetizzatori, ma solo amici, gente comune, preziosi sconosciuti. «Chi è quella ritratto nella spilletta?». Massimo immagina di poter rispondere «È Roberta, la mia amica», spiazzando con la semplicità di un nome familiare di cui non serve recitare la discografia per illustrarne il valore. Una sagace rappresentazione dell’amicizia ai tempi dei social network, con l’invenzione di un piccolo quanto pregnante rituale di comunità.
Nelle tre tele Rivelazione, La scarpa di Philip e Tardo Autunno (2015), Bruno di Lecce intende sottoporre a un’ulteriore prova l’atteggiamento profondamente analitico tipico del proprio operare artistico. Appassionato di misurazioni e trasposizioni di codice dalla cartografia al reale, Bruno vede nella forma della città moderna un monumento alla fuga dall’incerto, una pervasiva ossessione di controllo e un’autorappresentazione dell’umano pacificante e inquieta al contempo. Nel limite della biologia umana, l’esperienza di questa rete di sicurezza urbana lascia trasparire una traccia di quell’ignoto naturale che la modernità ha tentato di rimuovere. In questo contesto dipingere è un esercizio di riattivazione della visione, di presa di coscienza, di patteggiamento con un universo non più tecnico. Una curiosa parafrasi pittorica del metodo delle misurazioni di Cresci: in una serie di enigmatici e ristretti scorci urbani dominati da emblematici mattoni, fanno incursione strani oggetti e metri da sarto. Lo scopo è, finalmente, smarrirsi, perdere la partita contro la città e forse riconciliarsi all’habitat e al paesaggio.
Alessandra Bia propone un’installazione composta da una serie di grandi dipinti che si offrono come fondali per la recitazione di Bartolomeo Smaldone. La sua pratica pittorica è un esercizio di annullamento e partecipazione a un paesaggio materano a tratti idealizzato e fantastico. Entusiasta inquilina dei Sassi, Alessandra intende vivere il quotidiano in un perenne stupore stordito di bellezza, in un’atmosfera panica, estetizzante, che sappia di sofisticazioni poetiche. Decide così di elevare a soggetto delle proprie tele una trasposizione dell’ordinaria straordinarietà del paesaggio in cui vive, così che l’esercizio pittorico possa condurla a un totale smarrimento e una totale identità con esso. Il fondale che accoglie Bartolomeo in mostra, infatti, non è solo superficie su cui far muovere le figure, come in un teatro delle marionette, ma evocazione scatolare di un ambiente costruito per la poesia, e contemporaneamente macchina di trasposizione del soggetto in una visione immersiva del dipinto e della rappresentazione del paesaggio.
Suicide Girls (2016) di Marcello Mantegazza è un’installazione ambientale consistente in sette cubi di legno bianco di 24 centimetri per lato che riportano in sommità una lastra di marmo di Carrara. Un’ottava lastra affissa a parete riporta inciso il titolo dell’opera, Sucide Girls; su ognuna delle sette lastre è inciso invece il nome di una poetessa suicida (Virginia Woolf, Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Anne Sexton, Marina Ivanovna Cvetaeva, Alfonsina Storni Martignoni, Amelia Rosselli). Le lapidi, prese singolarmente, sono il risultato della più determinata tensione verso il prototipo della lapide funeraria: marmo di Carrara arabescato di grigio, carattere graziato, composizione a epigrafe, incisione del nome su pietra. A questo sforzo di anaffettività e privazione di sensi, fa da contraltare la fredda attitudine al catalogo, alla lista, al censimento, all’inventario, condotta con abnegazione e controllo verso il più rigoroso degli esiti. Il corto circuito tra indagine del tema mortuario e applicazione di un algoritmo classificante riesce a scatenare un profondo senso di disturbo dovuto alla capacità di Marcello di anatomizzare gli immaginari per poi condurli al vivo del trauma, per far emergere l’innocente atrocità che è in essi. Come spesso accade nelle sue opere, un titolo irridente e amaro dai toni pop: Suicide Girls non è solo la descrizione del tema dell’opera, ma è anche il nome di una nota community di donne tatuate amanti di una fotografia dalle edulcorate estetiche punk.
Disappearance (2014-2015) di Pino Lauria è un lavoro incentrato su una potente indole all’ossimoro. Una nicchia in legno accoglie una comune statua della Vergine Immacolata nella sua configurazione più comune e diffusa sul mercato. La nicchia, come luogo della custodia di un’apparizione, come ritualizzazione nell’esposizione di un’immagine sacra che affiora miracolosamente, è qui trattata con della tela mimetica nei toni del verde, del bruno, del sabbia, del nero, di chiaro stampo militaresco. Anche la superficie della scultura sacra è dipinta con cura con lo stesso motivo mimetico con colori naturali. L’intero apparato ostensorio di un’apparizione involve inaspettatamente in una macchina del paradosso che tenta di nascondersi a se stessa. Percepiamo ben evidente nello spazio espositivo l’edicola – ancor più perché mimetica – ma siamo anche sottilmente turbati dal fatto che, invece di offrire allo sguardo l’immagine sacra, le offra riparo perché possa ritrarsi in uno sfondo, scomparendo. 
Donato Faruolo espone undici tavole stampate al plotter su carta comune con undici visioni satellitari su isole inesistenti in cui insistono limpide geometrie architettoniche, oscure sedi di potere rinchiusesi in forme euclidee, astratte, leggibili solo ad alta quota. Regulars (2014) è il titolo dell’opera, e insieme a questo testo è il suo contributo al convivio di Chora.
Alessandra Bia, Dario Carmentano, Bruno Di Lecce, Donato Faruolo, Massimo Lovisco, Pino Lauria, Marcello Mantegazza, Claudia Olendrowicz, Vito Pace

















vernissage sabato 18 giungo 2016, ore 18.00
fino al 24 giugno 2016, solo su appuntamento